Lingua italiana cercasi nei social. Gli studenti sanno scrivere e leggere? [Risponde il linguista]

social media

 

Tra hashtag, emoticon, inglese e parole abbreviate che fine ha fatto la lingua italiana? Persa nelle tastiere degli smartphone, tra tab e pc, la lingua orale è diventata scritta e gli errori diventano orrori, per colpa del T9.

“Da tempo si è deprecato che l’uso degli sms stia abituando i ragazzi a un sotto-italiano essenziale. Certamente questo impone ai più deboli una visione ridotta della scrittura, per cui a un altro esame universitario un ragazzo ha parlato di Nino Biperio perché leggendo Bixio aveva inteso la ‘x’ come normale abbreviazione in luogo di ‘per’”.

Umberto Eco

Prendendo come spunto di riflessione il discorso di Umberto Eco, tenuto durante le celebrazioni del 150 anniversario dell’Unità d’Italia, denominato “La lingua italiana fattore portante   dell’identità nazionale”, c’è da chiedersi ma gli adolescenti, abituati ad una comunicazione e ad una scrittura veloce e senza regole grammaticali, sanno ancora scrivere? E sanno parlare?

linguistica

A rispondere alle domande è il professore di Linguistica italiana, del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo, Roberto Sottile (nella foto).

Quanto ci stiamo effettivamente allontanando da un uso corretto della lingua italiana, se non alta quantomeno media?

 

Nel contributo di Umberto Eco possono rintracciarsi tre nuclei fondamentali:

  • L’italiano del passato: lingua prevalentemente usata per scrivere, da una élite (da chi sapeva leggere e scrivere), piuttosto cristallizzata (la scrittura, infatti, irrigidisce e imbalsama qualunque lingua) tant’è che non è difficile oggi per un italiano “capire” Ariosto o perfino Dante, mentre la lingua di Chaucer apparirebbe a un inglese di media cultura del tutto incomprensibile;
  • L’italiano del presente: lingua non più usata soltanto per scrivere, ma anche per parlare, lingua, quindi, usata da tutti e per di più con un uso giovanile anche su “supporti” diversi da quelli tradizionali (sms, Social Network) con importanti ricadute sulla sua “qualità”;
  • L’italiano del futuro: lingua che per sopravvivere, anche come specchio e simbolo dell’unità nazionale, deve fare i conti se non combattere con un certo revival dei dialetti promosso da quanti oggi vorrebbero (e non sono soltanto uomini politici!) attribuire ai dialetti le funzioni ”alte” di una lingua ufficiale, “costringendoli” a parlare forzatamente e in modo quasi “caricaturale” di argomenti per i quali non è mai esistita una tradizione (proviamo a immaginare un trattato di filosofia scritto in dialetto, o lo stesso articolo di Eco… ma consideriamo anche in quanti siamo rimasti, se ne siamo rimasti, ad avere buona competenza del dialetto…)

Ma concentriamoci sul punto 2), l’italiano del presente:

Una lingua usata per parlare, ovviamente, evolve e cambia rapidamente. Quanti di noi hanno riflettuto sul fatto che il motore più potente del cambiamento linguistico è l’errore?

ESEMPIO

Il plurale di “lei” è “loro”. Allora, se io mi rivolgo contemporaneamente e in forma diretta a due o più persone alle quali singolarmente do del “Lei”, dovrei usare “Loro”: non potrei dire “Dottore, Lei e sua moglie verrete a cena da noi stasera?” Dovrei dire “Dottore, lei e sua moglie verranno a cena da noi stasera?”. Se entrassi in una salumeria e al banco trovassi due salumieri, non dovrei dire “Avete [voi] del salame piccante?”, dovrei invece dire “Hanno [loro] del salame piccante?”. Infatti se a un singolo salumiere chiedo (dandogli del “lei”) “Ha del salame piccante?”, a due salumieri insieme, per la grammatica, devo necessariamente dire “Hanno loro…”. Immaginiamo la scena: i due salumieri girerebbero la testa per tentare di capire chi sono le terze persone alle loro spalle alla quali mi sto riferendo! Analogamente, nessuno direbbe, riferendosi a una persona di genere femminile, “no, ella non può venire alla festa”; tutti diremmo “no, lei non può venire alla festa”. Ma per la grammatica, il soggetto è ella e non lei. Come suonerebbe un correttissimo ella in quella frase? Ho dato due esempi di errori che, nonostante siano errori, fanno la nostra lingua, specialmente quella parlata, un po’ più “accettabile”. Il problema, dunque, non è la correttezza, ma l’accettabilità che, in definitiva, è direttamente proporzionale alla frequenza d’uso. Una struttura, una parola, un suono, se sono usati frequentemente, anche dalle persone istruite, diventano possibili e dunque accettabili (e accettati) sebbene tradiscano la grammatica (che, quanto all’italiano, ricordiamoci, poi, che è principalmente “settata” per l’uso scritto). Sono cambiamenti, ex errori, che piano piano entrano nella lingua come forme “normali”.

Chi dovrebbe sbarrarne l’ingresso? I grammatici?

Spesso i parlanti fanno cose diverse rispetto a quelle indicate nei modelli di lingua.

Il problema, in realtà, non è l’uso alto o l’uso medio della lingua, ma le situazioni, i contesti comunicativi che richiedono o possono permettere usi più o meno alti.

ESEMPIO

Si parla tanto di morte del congiuntivo (una moda!). I linguisti, avendo notato un uso sempre più massiccio dell’indicativo nelle proposizioni subordinate rette da un verbo d’opinione, si sono applicati nel distinguere dal punto di vista semantico tra frasi che esprimono maggiore o minore certezza. Se dico “credo che sta venendo” esprimo maggiore certezza circa la possibilità della venuta della persona alla quale mi riferisco; se dico “credo che stia venendo” esprimo minore certezza. Salvatore Claudio Sgroi, un caro collega dell’Università di Catania, che nelle sue analisi unisce sapientemente rigore scientifico e ironia, ha scritto un bellissimo libro dal titolo “Dove va il congiuntivo?”. In una pagina memorabile, scrive che un prete non dovrebbe/potrebbe dire “credo che Dio esista”, perché se è un uomo di fede, non dovrebbe avere nessuna incertezza. Dovrebbe allora dire “credo che Dio esiste”. Sgroi ha chiesto a un prelato, suo amico, di formulare la frase e quegli, risaputissimo uomo di fede, ha detto “credo che Dio esista”! Ironicamente, il linguista catanese ci fa notare, dunque, che l’uso del congiuntivo o dell’indicativo non ha nulla a che fare con la certezza o l’incertezza del parlante, ma con la formalità o l’informalità della situazione comunicativa in cui si usa la frase. Un italiano dirà o potrà dire “credo che Dio esiste” se sta parlando a un interlocutore con il quale ha un alto grado di confidenza e se sta usando una varietà di lingua colloquiale; dirà “credo che Dio esista” se una diversa situazione comunicativa gli richiederà un uso della lingua più controllato, pù elegante, stilisticamente più elevato (come renderebbe la frase se parlasse al Papa? O magari potremmo chiederci se per caso avrebbe usato il congiuntivo con Giovanni XXIII e l’indicativo con Papa Francesco o, come tutti lo chiamiamo, più confidenzialmente, Francesco…). Non vedrei il problema nei termini di un allontanamento dagli usi corretti di una lingua ma in relazione al rischio che i parlanti, soprattutto quelli più giovani, non sappiano distinguere tra situazioni comunicative che richiedono usi alti e situazioni che possono consentire o che, addirittura, richiedono usi medi. Non sveglierei mai mio figlio dicendoli “O figliuolo, orsù, lèvati ché la colazione ti attende!” Gli direi probabilmente “àlzati che la colazione è pronta” (con un bel “che” in funzione di generico introduttore di una subordinata con valore causale). Salvo a riconoscere che in alcuni contesti questo “che polivalente” va assolutamente evitato (nella scrittura di un articolo scientifico, per esempio). Se l’ipotetico studente citato da Eco – comunque culturalmente “poco attrezzato” – avesse saputo, se qualcuno glielo avesse spiegato, che il modo (essenziale?, creativo?) in cui si scrive sui Social non è, non può essere, l’unico modo di scrivere, avrebbe forse compreso che ‘x’ in luogo di ‘per’ è un simbolo che vale solo per le scritture tachigrafiche o brachigrafiche. Possedendo questa consapevolezza, si sarebbe posto il problema di capire innanzitutto se nel cognome Bixio, quel simbolo ‘x’ fosse altra cosa da quello dei suoi sms. Ma qualcuno avrebbe dovuto insegnarglielo… Forse la scuola dovrebbe affiancare all’analisi dei testi letterari o dei giornali l’analisi e la comprensione dei meccanismi di composizione di altre strutture testuali e che ogni tipologia di comunicazione ha una diversa testualità nella quale perfino i “segni alfabetici” possono avere funzioni e valori diversi…

cyberbullismoCosa consigliare ai genitori? E ai docenti? E ai ragazzi?

Ai genitori consiglierei di usare in famiglia una varietà di lingua che abbia qualche elemento di peculiarità confinato, però, alle mura domestiche. Se i genitori hanno buona competenza del dialetto si potrebbe continuare a usarlo in famiglia (solo in famiglia!): i ricercatori hanno scoperto che i bambini che conoscono il dialetto, oltre alla lingua nazionale, godono degli stessi vantaggi cognitivi dei bambini che parlano più lingue. Sarà pure la scoperta dell’acqua calda, ma spesso dimentichiamo che il plurilinguismo, anche quello che riguarda la lingua e il dialetto, è una risorsa socio-cognitiva e culturale davvero importante. Ai genitori consiglierei, dunque, una politica linguistica basata sull’apertura al plurilinguismo; alla scuola l’insegnamento di una grammatica più “laica”, attenta ai fatti di lingua come fatti sociali, più aperta alla variazione pur all’interno di un approccio prescrittivo, in grado di insegnare “la grammatica” come occasione per riflettere sulla lingua e perché se ne possano applicare le regole ogni volta che occorra produrre testi “corretti” ed “eleganti”. Ai ragazzi di leggere, anzi di leggere assieme ai genitori: riservare una, due ore al giorno alla lettura comune, non necessariamente corale, ma nello stesso luogo della casa, in salotto, per esempio, come alternativa allo smartphone o alla tv, potrebbe essere di grande aiuto per il rafforzamento delle abilità linguistiche.

linguaÈ peggio l’italiano scritto o parlato?

Direi che è peggio l’italiano che viene scritto come se fosse parlato. Così torniamo, anche se in termini leggermente diversi, al problema dello studente di Umberto Eco. Se ogni utente della lingua possedesse la nozione di “variazione” saprebbe che l’italiano, come ogni lingua, è paragonabile alla tastiera di un pianoforte. E, come ogni tasto fa una nota diversa, ogni varietà di lingua fa un uso diverso (con strutture diverse), di volta in volta calibrabile e calibrato sulla base del contesto comunicativo e del canale utilizzato.

ESEMPIO

Se dico: “il suo articolo sull’italiano del futuro, Umberto Eco lo ha scritto in occasione dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia”, sto usando una dislocazione a sinistra, fenomeno sintattico tipico della lingua parlata che prevede lo spostamento della stringa più importante dell’enunciato, in questo caso “il suo l’articolo sull’italiano del futuro” nella parte iniziale (tecnicamente si dice “in posizione tematica”), e la sua ripresa con un clitico (lo). Ora, una simile costruzione è tipica del parlato perché il fluire veloce delle informazioni, i “rumori” ambientali, la natura orale della comunicazione richiedono certe strategie per evitare che l’informazione, nonostante la sua “velocità”, passi adeguatamente senza essere fraintesa.

Nello scritto, invece, dove l’occhio può leggere e rileggere più volte e la comprensione non è dunque connessa alla momentaneità, formulerei la frase in questi termini: “Umberto Eco scrisse il suo articolo sull’italiano del futuro in occasione dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia”. Così avrò “rispettato” l’ordine sintattico Soggetto + Verbo + Oggetto, tipico dell’italiano, e avrò formulato una frase “ben formata”, perfino elegante (si noti anche l’uso del passato remoto), che potrà essere compresa nel suo significato grazie all’occhio che, eventualmente, al bisogno, può leggere e rileggere, e non grazie all’orecchio che può ascoltare ma non ri-ascoltare…. Ora, statisticamente, mi capita spessissimo di correggere nelle tesi dei miei studenti numerose frasi con dislocazioni che invece sono ammissibili solo nel parlato e non andrebbero usate nello scritto, a maggior ragione in una tesi di laurea! Ma chi insegna ai nostri ragazzi queste differenze, cosiddette “diamèsiche”?

ESEMPIO

Se dico “mi diverte molto capire quali saranno le sorti dell’italiano del futuro”, tutti comprendiamo che quel mi è un complemento oggetto. Ma a molti sarà capitato di sentire la stessa frase così riformulata: “a me diverte molto capire quali saranno le sorti dell’italiano del futuro”. Il complemento oggetto me, in posizione iniziale, ha richiesto l’introduzione della preposizione a (a me). Quanti di noi colgono che qui il complemento oggetto non dovrebbe essere accompagnato da una preposizione perché altrimenti è come se dicessimo qualcosa di simile a “chiama a tua madre”? Bene, ma quella frase è sbagliata?

Diremo, più semplicemente, che nell’italiano parlato è usatissima e una costruzione simile è documentata perfino nell’uso di Tullio De Mauro, uno dei maggiori linguisti del ’900 (intervista sul Corriere della Sera, 4 Settembre 1992, cit. in L. Lorenzetti “L’Italiano Contemporaneo”, Carocci 2002).  Siamo tornati al punto di partenza; una cosa è la lingua scritta, altra cosa è la lingua parlata: se impariamo che le due varietà seguono “regole” diverse, potremo usare bene l’una e l’altra, l’importante è non confondere i piani. Non si può scrivere con la bocca (ma non si dovrebbe neanche parlare con la penna, a meno che la situazione non ci richieda, qualche volta, di “parlare come un libro scritto”, a un colloquio di lavoro, per esempio, o in tutti i casi nei quali vogliamo fare una buona impressione). Se quando scriviamo un sms non usiamo le virgole, dobbiamo fare in modo che tale abitudine non si trasferisca anche nelle altre pratiche di scrittura…

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Questa evoluzione o involuzione è colpa di Internet, chat e social?

La “neoepistolarità tecnologica”, come la chiamano i linguisti, è un fenomeno interessantissimo. La scrittura osservabile su Facebook, come quella degli altri Social Network (Twitter, Whatsapp, per non parlare degli sms), presenta numerose caratteristiche tipiche della lingua parlata, tanto da potersi definire parlato-scritto (o, meglio, parlato-digitato). Osservando la maggior parte delle bacheche dei profili Facebook, si nota come la lingua ivi scritta non sia altro che una “simulazione” del parlato, il quale viene trasmesso e “riportato” direttamente sul web. Si tratta di una situazione molto complessa: la scrittura, generalmente e tradizionalmente usata per le comunicazioni “formali” e asincrone, con tutto ciò che ne consegue sul piano della strutturazione linguistica e testuale e dei processi cognitivi ad essa connessi, viene qui usata per “trascrivere/digitare” un atto comunicativo che, pur a distanza, ha la pretesa di riprodurre un’interazione orale vis à vis, per di più dal carattere prevalentemente informale e colloquiale.

Di conseguenza, come ha osservato Michele Cortelazzo,

«la scrittura elettronica ha portato alla redistribuzione dei domini nei quali è utilizzabile la lingua scritta, alla creazione di nuove convenzioni comunicative, all’aumento della trascuratezza ma allo stesso tempo della creatività».

Di questa creatività partecipano principalmente i giovani i quali riescono, meglio degli altri utenti di Facebook, a utilizzare tutte le risorse, le strategie e gli accorgimenti che possano permettere alla loro scrittura di “ripetere” e “restituire” le caratteristiche linguistiche e comunicative della lingua parlata: l’intonazione, attraverso la reiterazione/esagerazione della punteggiatura; le frasi “urlate”, restituite mediante l’uso del maiuscolo;  le espressioni del viso ricreate mediante la stilizzazione grafica  < 🙂 🙁 :-S > ovvero mediante l’uso delle “faccine”, veri e propri “pittogrammi moderni”. Si tratta, dunque, di espedienti utilizzati allo scopo di imitare la voce, vivacizzare la scrittura, ottenere una sintesi efficace anche per l’occhio.

Tra questi rientra l’uso di tachigrafie e brachigrafie, impiegate per scrivere in modo veloce e breve come k in luogo ch e x al posto di per. Il parlato si caratterizza anzitutto per l’informalità e la colloquialità. L’abilità, tutta giovanile, di riproporre nella scrittura i moduli della colloquialità si dispiega anche nell’uso di una lingua “inevitabilmente mescidata” dove termini di origine straniera, forme dialettali, parole di ambito giovanile, termini gergali convivono all’interno di strutture sintattiche lontane dalla lingua standard ma assolutamente “normali” nella lingua parlata che molto spesso tende anche a “esibire” un alto grado di espressività.

Il problema nasce quando si deve invece scrivere un testo che dovrebbe presentare caratteristiche e seguire regole tipiche della scrittura (un testo cioè che non dovrebbe risultare dalla “trascrizione fedele” di un atto linguistico orale). Se i giovani praticano soltanto la scrittura sul web e se non imparano a differenziare le diverse tipologie testuali scritte, oltre che le diverse situazioni comunicative, scriveranno sempre come se fossero in chat e avranno lo stesso problema che ha avuto lo studente di Eco che ha scritto Nino Biperio per Nino Bixio.

Uno studio condotto nel 2010 dall’Università di Zurigo ha mostrato che l’uso dei media influisce poco o nulla sulla competenza di scrittura dei giovani: la conoscenza ortografica e la capacità di espressione nei loro scritti scolastici o accademici non risentono significativamente dello stile della chat di Facebook. Ciò che emerge è la grande capacità dei giovani di “muoversi” con estrema facilità lungo l’“asse diafàsico” della lingua italiana, ovvero l’abilità nell’adattare lo stile ai diversi contesti o situazioni di scrittura. Ciò deve essere dipeso dalla loro “maturità” linguistica, cioè dalla loro capacità di usare la lingua padroneggiandone i diversi tasti e le diverse potenzialità variazionali. Per quale motivo la scuola non dovrebbe anche insegnare che una lingua si padroneggia veramente se i suoi utenti ne sanno variare l’uso a seconda delle situazioni e del mezzo?

Tra Internet e Inglese, cos’altro danneggia la nostra lingua?

Non so se internet danneggi la lingua. Sicuramente la danneggia se la sua frequentazione determina l’abitudine degli utenti a produrre qualunque testo scritto come se fosse una “conversazione” in chat o a scrivere come è scritto un articolo di un giornale on line. Internet danneggia senz’altro la qualità del sapere, soprattutto se chi si muove nella rete utilizza gli strumenti di conoscenza più comuni e meno controllati. Wikipedia è la bibbia dei giovani, ma molto spesso le informazioni che vi si trovano non sono attendibili e per di più non riportano le fonti. Il controllo delle fonti è importante. Non avere consapevolezza di tale importanza significa considerare ciò che viene detto (giusto o sbagliato che sia) indipendentemente da chi lo ha detto: è come se noi, commentando l’articolo di Eco, utilizzassimo e ragionassimo sulle sue parole senza avere consapevolezza che quelle parole sono sue.

Questa “generalizzazione”, questo “appiattimento” del sapere danneggia il gusto, lo stile della conoscenza e perfino l’approccio ad essa. L’altro giorno osservavo mio figlio (di dodici anni) che riportava su un file una serie di frasi celebri sulla pasta. Gli avevo prestato il computer e rimessomi al lavoro, al temine della sua ricerchina, mi sono accorto che aveva lasciato aperta la pagina web da dove aveva tratto quelle frasi. Come si può cogliere tutta la pregnanza di una frase del tipo “E su la tomba mia, tutta la gente ce leggerà ‘sta sola dicitura: ‘Tolto da questo mondo troppo al dente’” se non si considera che è stata prodotta da Aldo Fabrizi? (Pensiamo al fisico dell’attore, alla scena in cui Fabrizi insegue Totò e questi gli dice che non potrà mai prenderlo in virtù della loro differenza di peso; pensiamo alla sua “romanità” e alla Sora Lella – la sorella di Aldo Fabrizi, nei film la nonna di Carlo Verdone – che ha gestito per molti anni uno dei più rinomati “ristoranti” romani). Ora, ho notato che mio figlio nel suo file aveva riportato le frasi obliterandone sistematicamente la paternità. Per lui non aveva nessuna importanza chi le avesse dette (e perché)… Mi chiedo: può valere il pensiero di Platone senza sapere che quel pensiero è di Platone? Possibile che a scuola nessuno abbia fatto notare a mio figlio che le frasi celebri vanno riportate insieme al nome di chi le ha dette? Non insegnare/imparare questo significa correre il rischio che i nostri ragazzi domani, quando scriveranno la loro tesi, scopiazzeranno serenamente e “naturalmente” senza avere nessuna consapevolezza di una pratica che si chiama plagio e che, a ben pensarci, è un reato….

bandiera

Andiamo all’inglese. La nostra lingua è danneggiata più dall’inglese o dal battage dei media che marciano su questo argomento? Per una lingua accogliere parole straniere è un fatto fisiologico, ma l’ingresso dell’inglese viene avvertito come preoccupante perché viene presentato dai media come una vera e propria invasione. Le parole inglesi penetrate in grande misura negli ultimi anni non hanno intaccato la lingua di base. De Mauro nel suo Dizionario documenta una percentuale nel vocabolario di base pari allo 0,5%. Ciò dipende dal fatto che gli anglicismi presenti oggi nell’italiano appartengono alla terminologia di diversi linguaggi tecnici e scientifici (pubblicità, finanza, informatica) che sono altra cosa dalla lingua di base (formata da quelle 7.000 parole che vengono usate quotidianamente da tutti, che vengono apprese per prime, che rappresentano il nucleo fondamentale della nostra lingua e infatti costituiscono anche il lessico di un bambino di 5 anni). È vero, però, che oggi scienza e tecnologia (e quella informatica “parla” inglese) godono di grande prestigio. Di conseguenza, spesso ci si rivolge ad esse come fonti di lingua. Quando l‘italiano si fondava sul modello letterario, tutto ciò che letterario non era veniva confinato al suo specifico ambito, ma adesso le carte si sono mescolate: Come nota Giuseppe Antonelli, se in passato i termini tecnici venivano utilizzati per la loro univocità (una parola con un significato unico e ben definito), oggi vengono usati per la loro capacità evocativa, quasi esotica. Non più parole tecniche “di necessità”, ma “tecnicismi di lusso”. Esiste, poi, l“aziendalese”. Gli uffici stanno sostituendo il linguaggio burocratico (in parte fondato sul latino) con il linguaggio aziendale (una lingua settoriale infarcita di anglicismi usata nelle filiali italiane delle multinazionali a partire, almeno, dagli anni ’80 e oggi sempre più diffusa nella pubblica amministrazione): front office, back office, advisor, budget, team, briefing. Dall’azienda alla politica e alle istituzioni il passaggio è breve: welfare, question time, devolution, Rai educational (??), Rai fiction. Il più recente caso di stepchild la dice lunga. Spesso, però, è anche vero che si usa l’inglese per essere politicamente corretti: stepchild suona meglio di figliastro, ma al limite configlio, come consuocero e cognato, avrebbe potuto funzionare benissimo, per di più, con l’uso di una formazione che attinge pienamente alle risorse proprie della morfologia derivazionale della nostra lingua.

Cos’altro danneggia la nostra lingua? Il fatto che gli italiani leggono poco. Con Tullio De Mauro, potremmo dire che la notizia buona è che il nostro Paese oggi non è più scolasticamente sottosviluppato; quella cattiva riguarda, invece, la persistenza dell’antico analfabetismo primario nella forma di «scarsa o nulla abitudine e perfino capacità elementare di lettura». È un fatto che in Italia si leggono pochi giornali e pochissimi libri. Rispetto agli altri paesi europei siamo molto indietro (lo dicono i dati Ocse) quanto a capacità di comprensione di un testo scritto. Viviamo in un paese in cui tutti sono scrittori e pochi o nessuno lettori.

Danneggia, inoltre, la nostra lingua l’uso preconfezionato delle sue risorse: le giornalistiche “lamiere contorte” dalle quali i vigili del fuoco estraggono un ferito grave; l’insopportabile “e quant’altro” a conclusione di un elenco; il ridicolo “non c’è di che”, quale risposta a un “grazie”; l’antipatico “salve” come saluto ipergeneralizzato, rivolto indifferentemente a “grandi e piccini”. L’uso della lingua è, per altro, un fatto estetico, come i vestiti che scegliamo di indossare: meno frasi fatte e inesorabilmente logore la fanno più elegante, più “personale”, più consapevole e meno “scontata”.

Danneggia, infine, la nostra lingua una classe politica alla quale è stato spiegato che il consenso si mantiene anche mediante una costante comunicazione scritta, mediata dal computer e destinata all’elettorato, ma che spesso si mostra poco avvertita nell’uso dell’italiano (si pensi al “caso Gasparri” che ha determinato perfino la circolazione sui Social di Tweet linguisticamente improbabili e assolutamente inventati, con la pretesa di riprodurre una specifica varietà di lingua ribattezzata come “gasparrese”). La quasi deriva della nostra lingua per il tramite dell’attività, anche legislativa, della nostra classe politica è evidente anche nel testo della riforma costituzionale. Si consulti il blog del linguista padovano Michele Cortelazzo per cogliere diversi elementi di preoccupante criticità.

“Una volta i padri parlavano ancora e solo dialetto mentre i figli che andavano a scuola introducevano in famiglia l’italiano; oggi i padri, come abbiamo visto, parlano un italiano passabile, quasi colto, ma i figli smarriscono il controllo della loro lingua”.

Umberto Eco

Com’è cambiata la nostra lingua negli ultimi 10 anni?

Moltiplicherei la cifra almeno per 3 o per 4 e mi riferirei agli ultimi quarant’anni, quando gli effetti dell’innalzamento del grado di istruzione obbligatoria (terza media), la televisione (Mike Bongiorno, avrebbe detto Umberto Eco), la modernità (cioè il tramonto della civiltà contadina che parlava dialetto), l’interruzione della trasmissione intrafamiliare e intergenerazionale del dialetto hanno fatto dell’italiano la lingua di tutti, facendola passare da codice dell’uso prevalentemente scritto a codice degli usi orali. Aggiungerei, quindi, che ancor prima della lingua è cambiato (è cresciuto) significativamente il numero dei suoi utenti. Divenuta lingua di tutti e lingua per parlare, l’italiano ha subito (suo malgrado o malgrado i puristi?) una serie di cambiamenti strutturali, utili a renderla “adatta” alla necessaria fluidità degli usi orali, con l’emersione di “tratti”, di caratteristiche diverse da quelle dell’italiano standard (l’italiano di modello letterario, “raccomandato” dalle grammatiche soprattutto per un buon uso scritto). Se ne accorse Francesco Sabatini, che nel 1985 introdusse la nozione di “italiano dell’uso medio”. Per Sabatini bisognava riconoscere l’esistenza pluri-secolare, ma censurata dai grammatici, di una varietà di lingua usata nel parlato, in grado di risalire anche nei testi scritti di media formalità.

lingua

ESEMPIO

Tra le sue caratteristiche nuove, l’uso, appunto, di lui e lei, al posto di egli e ella, le strutture me lo potevi dire anziché potevi dirmelo, se me lo dicevi te lo portavo, anziché se me lo avessi detto te lo avrei portato, volevo fare una domanda anziché vorrei fare una domanda, domani vado a Palermo anziché domani andrò a Palermo, maledetto il giorno che ti ho incontrato (che è anche il titolo di un film di Verdone) anziché maledetto il giorno in cui ti ho incontrato eccetera.

Un italiano contemporaneo dalla complessa architettura, ma con importanti processi di ristrutturazione per nulla dissimili da quelli che si osservano o si sono osservati nelle altre lingue europee che hanno una tradizione ormai secolare di usi orali.  La sorte dei nuovi tratti ha sempre a che fare solo con i parlanti. Dopo qualche anno di uso massiccio della forma piuttosto che con valore disgiuntivo (mangio la pasta piuttosto che il pane “mangio la pasta oppure il pane”), ho l’impressione che ultimamente questa struttura sia in regresso e stia per ritornare al suo originario (non dico corretto!) uso/valore contrastivo (“mangio la pasta anziché il pane”) e comunque il nuovo uso della forma non sembrerebbe aver determinato un significativo arretramento di quello più antico.

Cosa bisogna fare per recuperare quelle che sono le radici della nostra italianità?

Mi piace immaginare che abbia detto non casualmente “italianità” in luogo di “italianità linguistica”. Abbiamo bisogno di sentirci più italiani … nel mondo. La lingua è un fatto sociale e le sue dinamiche vanno lette in relazione ad altri importanti fattori. Se il “Made in Italy” va in crisi, ne risente anche la lingua. Qualche anno fa gli studenti di lingue sceglievano lo spagnolo; oggi scelgono il tedesco, perché sanno che se vanno in Germania trovano lavoro. L’Italia attualmente non sembra contare molto dal punto di vista economico. Potremmo rifarci con la cultura, ma invece chiudiamo gli istituti di cultura italiana e le scuole italiane all’Estero per razionalizzare le risorse. Le radici della nostra italianità vanno semplicemente coltivate, ma ciò è possibile se torniamo ad essere un grande paese.

Per tornare alle suggestioni di Umberto Eco, negli anni ’70 i padri e le madri che parlavano dialetto, decisero che bisognava rivolgersi ai figli in italiano. Parlanti che avevano avuto il dialetto come lingua materna hanno deciso che la lingua materna dei loro figli dovesse essere l’italiano. Non so quanto, quindi, la lingua di questi genitori sia (stata) un italiano “passabile” o “quasi colto”. Ornella Castellani Pollidori ha parlato, altrimenti, di una “lingua di plastica”.

I figli smarriscono il controllo della lingua perché in famiglia come a scuola non si riserva la giusta attenzione al problema della variazione linguistica (ne abbiamo discusso sopra: è importante imparare che esistono tante varietà di lingua quanti sono i contesti e i mezzi di comunicazione e che molto spesso conta più l’appropriatezza che la correttezza linguistica). Ma forse c’è dell’altro: una collega dell’Università di Padova, Gianna Marcato, qualche anno fa rifletteva sul fatto che oggi non ci capiamo più con i nostri figli, che sono sempre insoddisfatti, chiusi e apatici, forse perché parliamo con loro come parliamo con i “foresti”. Una società dialettofona usa l’italiano quando si rivolge a un forestiero. Una società sostanzialmente dialettofona che negli anni ’70 decise (pur con le sue buone ragioni) di parlare ai propri figli in italiano ha creato un corto circuito importante: i bambini osservano e notano che i genitori, quando parlano tra di loro, poniamo, in una situazione intimo-affettiva, usano talvolta una “loro lingua”, quasi segreta (il dialetto) escludendo i figli (ai quali parlano e i quali devono parlare in italiano)… Senza considerare, poi, le esperienze di godimento emotivo connesse al tempo che i nostri bambini passano oggi con i nonni: sentono dagli anziani una lingua che qualche volta sentono anche dai genitori, ma che ad essi è preclusa, a meno che non la recuperino, per frammenti, durante la socializzazione secondaria (nel gruppo dei pari), mentre la loro acquisizione dell’italiano non passa, possibilmente, da analoghi contesti di godimento emotivo…  È un problema sul quale, forse, bisognerebbe riflettere…

4 commenti su “Lingua italiana cercasi nei social. Gli studenti sanno scrivere e leggere? [Risponde il linguista]”

  1. È vero che il cyberbullismo esiste in tutto il mondo ,prima si faceva in modo diretto,formandosi gruppi ai quali piaceva litigare con i compagni sia per la diversità del corpo o della capacità inteletuale.

    È vero che esiste il cyberbullismo in tutto il mondo, prima si faceva lo stesso di modo diretto,un gruppo si riuniva per litigare u offendere un altro, sia per diversità del corpo o del inttelletto;adesso si fa’ lo stesso ma più veloce con internet o sms addirittura di nascosto.Secondo me, i genitori con danno retta a questo ateggiamento dei suoi figli, soltanto aggiscono quando il danneggiato è il proprio figlio.
    Neanche si preoccupano se i figli leggono o no, o se parlano male, quasi come un analfabeto, o se l’ortografia è peggiore che quando loro andavano a scuola etc.
    La televisione, la radio e i giornali contribuiscono a continuare con un linguaggio pieno di parole foranee,verbi inventati conettivi che non essistono etc.
    Sono siccura che per i genitori non è facile lottare con tutte queste invasione che per i più giovanili sono moltro attrative. Ma come è stato da sempre, secondo me è l’unico cammino per il cambiamento della destruzzione della lingua sono I GENITORI responsabili del’educazione dei figli.
    Il punto è che loro non hanno la voglia di occuparsi con intensità di queste òbbligo.

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